martedì 25 ottobre 2011

La scuola neoclassica o marginalista e la scuola keynesiana

Oggi durante l'ora di economia politica abbiamo letto le pagine relative alla scuola neoclassica o marginalista e alla scuola keynesiana.

La scuola neoclassica o marginalista:

l'indirizzo neoclassico o marginalista nacque sul finire del 1800 soprattutto grazie all'opera dell'economista inglese William Stanley Jevons, Teoria dell'economia politica, pubblicata nel 1871.
Il pensiero marginalista ha trovato una larga diffusione soprattutto per i risultati raggiunti nell'analisi microeconomica del comportamento del consumatore e dell'impresa. Di questa corrente fanno parte numerosi esponenti, che si è soliti suddividere in differenti indirizzi ciascuno dei quali ebbe a sviluppare e approfondire i principi espressi da Jevons: tra gli altri, nella scuola austriaca si annoverano Karl Menger, Eugen von Bogm-Bawerk e Joseph Alois Schumpeter, nella scuola di Losanna Lèon Walras e Vilfredo Pareto, nella scuola di Cambridge Alfred Marshall.

Il termine marginalismo deriva dal metodo di analisi utilizzando, consistente nel ricercare le scelte ottimali dei singoli soggetti economici attraverso il confronto tra il costo sopportato e il beneficio ricavato dall'ultima dose considerata del bene (dose marginale, appunto).
Essi studiarono i processi di ripartizione delle risorse in base ai quali i singoli consumatori e le singole imprese operano le proprie scelte cercando di risolvere il problema della scarsità secondo i principi del tornaconto edonistico. Con questo approccio, razionalistico e utilitaristico, essi individuarono le condizioni di equilibrio del consumatore o dell'impresa.

I marginalisti ribaltarono la teoria del valore dei classici, ponendosi non più dal punto di vista della produzione, in base al quale il valore del bene è dato dalla quantità di lavoro necessario per produrlo (teoria valore-lavoro), ma dal punto di vista del consumatore. Il valore secondo i marginalisti è dato dall'utilità o rarità che il bene riveste per il consumatore (teoria valore-utilità). In tal modo alla concezione oggettiva del valore, si contrapponeva una concezione soggettiva.

La scuola neoclassica va ricordata anche per le importanti innovazioni di metodo introdotte nell'analisi dei fenomeni economici. I marginalisti per primi fecero largo uso dello strumento matematico per elaborare le loro teorie, contribuendo con ciò a rinnovare il linguaggio della scienza economica in senso più scientifico e rigoroso. Grazie a questa nuova metodologia essi hanno elaborato una teoria sul funzionamento dell'economia di mercato e individuato leggi studiate ancora oggi nei manuali di economia.

La scuola keynesiana:

il Trattato della moneta (1930) e la Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta (1936) sono gli scritti indispensabili per l'interpretazione del pensiero dell'economista di Cambridge John Maynard Keynes, e per apprezzarne il contributo da lui apportato all'economia moderna.

Egli prende le mosse da una critica severa delle concezioni economiche del liberalismo, in primo dalla legge degli sbocchi di Say. Keynes non condivideva l'ottimismo di quelle teorie basate sulla convinzione che il mercato fosse in grado di autoregolarsi e, attraverso il libero oscillare dei prezzi dei beni e dei fattori produttivi, riuscisse spontaneamente a raggiungere il pieno utilizzo delle risorse disponibili. Questo principio rivelò tutta la sua inadeguatezza durante la crisi del 1929 che dagli Stati Uniti d'America si estese in tutta Europa.
Per Keynes quella teoria poteva essere vera solo a condizione che tutta la moneta percepita dai proprietari dei mezzi di produzione fosse impiegata nell'acquisto dei beni prodotti con quei fattori produttivi. In pratica, solo reimpiegando nel sistema tutte le risorse che quel sistema aveva prodotto si poteva ottenere l'equilibrio di piena occupazione.

Il fatto è, sosteneva Keynes, che la moneta, oltre a essere mezzo di pagamento e unità di conto, svolge la funzione di riserva di valore e, proprio per questa sua peculiarità, non è spesa tutta per acquisti ma viene, in varia misura, risparmiata. Le decisioni delle famiglie sulla destinazione del loro reddito dipendono da svariati fattori non sempre prevedibili.
Senza dubbio il consumo dipende dal livello di reddito: più questo è alto, maggiore sarà il consumo, in termini assoluti. Tuttavia, la percentuale di reddito destinata al consumo (propensione al consumo) è decrescente all'aumentare del livello del reddito. La propensione al consumo è assai più elevata tra i percettori di redditi bassi che non tra i soggetti più abbienti. Si può infatti facilmente comprendere che coloro che posseggono poca ricchezza saranno costretti a spenderla tutta o quasi per procurarsi ciò di cui hanno bisogno, mentre chi dispone di maggiore ricchezza avrà la possibilità di sottrarne una parte ai consumi per risparmiarla.

L'incertezza sulle decisioni dei consumatori si ripercuote sulle imprese le quali, non conoscendo le scelte futuro dei consumatori, vivono perennemente il dilemma di quanto investire, vale a dire di quante risorse destinate allo sviluppo della capacità produttiva. Se sbagliassero le previsioni in eccesso, e quindi investissero tutte le risorse a disposizione, l'incremento della produzione non sarebbe assorbito dalla domanda e ne deriverebbe un'eccedenza di merci. Questo eccesso costringerebbe le imprese a ridurre la produzione, a diminuire dunque l'offerta e non a diminuire i prezzi.

Con una serie di reazioni a catena , come in una spirale negativa (la cui forza viene amplificata da particolari meccanismi, quali il moltiplicatore del reddito e l'acceleratore), la contrazione degli investimenti si traduce in una riduzione dell'occupazione e, quindi, in una diminuzione dei redditi e della domanda.

Le conclusioni a cui giunge Keynes sono diametralmente opposte a quelle dei classici. Non è l'offerta che influenza la domanda, ma piuttosto l'offerta che dipende dalla domanda. Gli imprenditori decidono gli investimenti sulla base delle previsioni di vendita.
Le condizioni di squilibrio come, ad esempio, quella della disoccupazione, lungi dall'essere situazioni transitorie che il mercato facilmente assorbe grazie al variare dei prezzi, possono avere carattere permanente. In conclusione, il mercato può giungere a situazioni di equilibrio tra domanda e offerta ma non sempre queste sono di piena occupazione, come ritenevano i classici. Più spesso l'equilibrio si verifica in un contesto di disoccupazione.
Keynes ritiene fondamentale l'intervento dello Stato che con un'accorta politica economica può sostenere la domanda nei periodi di crisi con interventi di varia natura, ad esempio aumentando la spesa pubblica o riducendo il prelievo fiscale, che avrebbero avuto l'effetto di liberare reddito disponibile per il consumo, funzionando, per così dire, da volano per la ripresa della economia.

Le teorie keynesiane ebbero applicazione in diversi Paesi, fino ai nostri giorni. La prima e più famosa, denominata New Deal (nuovo corso), riguardò il pian di riforme poste in essere tra il 1933 e il 1938 dal governo americano del presidente Roosvelt per risollevare il Paese dalla grave crisi che lo aveva colpito sul finire degli anni Venti.
Ai nostri giorni le testi keynesiane sono state riviste e gli interventi statali si sono allargati alla soluzione delle problematiche sociali, tutela della salute, pensioni ecc.

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